Diritto

App mobili, la tutela giuridica (parte I): il caso Business Competence contro Facebook

Nel procedimento giudiziario, i giudici hanno condannato il colosso del web per atti di concorrenza sleale parassitaria e la realizzazione di una app avente funzioni simili a quella del concorrente. I dettagli della vertenza

Pubblicato il 01 Giu 2021

Carlo Impalà

Partner – Responsabile del dipartimento TMT e data protection dello Studio Morri Rossetti

Federica Minio

Avvocato, Dipartimento proprietà intellettuale dello Studio Morri e Rossetti

Una delle domande che più frequentemente ci viene rivolta dai giovani startupper che si affacciano al mondo del business riguarda il perimetro di protezione giuridica delle c.d. app, il cui ritmo di sviluppo è davvero vertiginoso. Anche se sul nostro telefono cellulare ne utilizziamo al massimo una decina, quelle potenzialmente a nostra disposizione sono infatti qualche milione[1].

Cosa si intende per app

Che cosa si intende per app? Il termine, abbreviazione di “programma applicativo” o “applicazione”, in termini generali, indica qualsiasi software progettato con lo scopo di rendere possibile una o più funzionalità su richiesta dell’utente. Solitamente con il termine app si intende tuttavia riferirsi più specificatamente alle applicazioni c.d. “mobili”, cioè create per essere installate su telefoni cellulari, tablet o altri dispositivi mobili.

In questo articolo intendiamo riferirci a queste ultime; si tenga tuttavia presente che i principi in esso indicati saranno facilmente e probabilmente estendibili, ad esempio, anche alle applicazioni destinate a essere utilizzate sui personal computer.

Se la materia di cui intendiamo trattare non è certo nuova in termini assoluti, l’aggettivo calza invece se riferito all’ambito giuridico. Le pronunce che hanno trattato questo argomento, in particolar modo nel nostro paese, si contano infatti sulle dita di una mano. Nondimeno, dalla loro analisi è possibile trarre qualche principio generale utile per potersi orientare.

Si tratta in particolare delle pronunce della Sezione Specializzata in materia di Impresa[2] del Tribunale di Milano, emesse nell’ambito delle vertenze che hanno visto contrapporsi, da un lato, la società Business Competence S.r.l. e il colosso Facebook in relazione all’app “Faround” e, dall’altro, la società Satispay S.p.A. e il gruppo Sisal S.p.A. in relazione all’app “Satispay” (di cui di tratta nella seconda parte di questo articolo).

Il caso Business Competence vs Facebook

Il leading case italiano relativo alla protezione giuridica delle app è senz’altro quello che vede coinvolte da un lato la software house nostrana Business Competence S.r.l. e dall’altro il colosso mondiale Facebook[3].

L’origine della controversia risale al 2012, quando la società italiana elaborava l’app per telefoni cellulare denominata “Faround”, un’app di geolocalizzazione in grado di selezionare e organizzare, attraverso un algoritmo, i luoghi che interessano l’utente presente nella zona in cui si trova o in quella in cui desidera andare, mostrando le recensioni dei contatti Facebook e degli altri utenti e le offerte/coupon associati[4].

Poiché Faround era destinata a interfacciarsi con l’app Facebook, la Business Competence otteneva l’accesso al noto social network come sviluppatore indipendente e, nell’ottobre 2012, Faround veniva inserita nell’app store di Facebook, contenente tutte le applicazioni compatibili con il social network.

Senonché, poco più di due mesi dopo, Facebook annunciava il lancio di Nearby, un’applicazione, di titolarità di Facebook stessa, concorrente a Faround, di cui, a detta di Business Competence, rappresentava un clone del “concept” e del “format”, modificandone solo il layout grafico di visualizzazione.

Il procedimento di descrizione giudiziale

Nell’aprile dell’anno successivo, la software house agiva quindi davanti alla Sezione Specializzata in materia di Impresa del Tribunale di Milano al fine di ottenere un procedimento di descrizione giudiziale[5] sul programma per elaboratore preposto al funzionamento di Naerby, nonché sulle sue funzionalità e sui relativi algoritmi logici.

Poiché la società Facebook non consentiva al consulente tecnico d’ufficio l’accesso ai pc della società ai fini dell’acquisizione di una copia del codice sorgente del programma sottostante all’app, il procedimento veniva limitato alla descrizione delle sole funzionalità del programma Naerby.

La descrizione, come vedremo meglio infra, accertava la derivazione di Naerby da Faround.

Il giudizio di merito

Nel settembre 2013, Business Competence citava, dunque, in giudizio Facebook chiedendo, tra l’altro, l’accertamento della violazione del diritto d’autore sull’app Faround nonché quello del compimento di atti di concorrenza sleale ai suoi danni.

Nel costituirsi in giudizio, Facebook si difendeva, da un lato, affermando di non aver riprodotto l’algoritmo di Faround e di non averne copiato le funzionalità, ma di essere arrivata allo sviluppo di Nearby in via autonoma e indipendente, essendo la sua app in realtà uno sviluppo delle precedenti app “Places” e “Deals” e, dall’altro lato, negando che Faround fosse originale, dal momento che sarebbe stata preceduta da altre applicazioni basate sulla geolocalizzazione, quali “Yelp” e “Foursquare”.

La consulenza tecnica informatica disposta dal Tribunale

Nell’ambito della fase istruttoria, il giudice ordinava l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio (c.d. CTU) informatica volta ad accertare, oltre alla creatività dell’app Faround, la eventuale derivazione dell’app Nearby da questa o “l’esistenza di un [suo] autonomo sviluppo da parte di Facebook”.

Gli esiti della consulenza mettevano in evidenza quanto segue.

Circa l’originalità di Faround, la CTU rilevava che essa era originale (anche se non in termini assoluti)[6] dal momento che “reinterpreta[va] in modo intelligente informazioni già esistenti (incrociando dati presenti nel database degli utenti di Facebook con la posizione geografica di chi utilizza l’app in quel momento), organizzando tali informazioni in modo da fornire agli utenti servizi che […] sono fruiti in modo completamente nuovo e molto più efficacie”.

Quanto al presunto sviluppo autonomo di Nearby da parte di Facebook, la CTU chiariva che non vi era prova che la app rappresentasse un’evoluzione delle precedenti app Places e Deals avvenuta in tempi precedenti alla pubblicazione di Faround, dal momento che Facebook non aveva fornito “adeguata documentazione tecnica, di progetto, analisi funzionali e/o stati di avanzamento lavori”.

Circa, infine, la derivazione di Nearby da Faround, la CTU affermava che le due app avevano le “medesime funzionalità, consistenti nel segnalare gli esercizi commerciali presenti entro una certa distanza dalla posizione dell’utente e nel mettere in evidenza i commenti degli amici di Facebook[7].

Sebbene la consulenza evidenziasse alcune differenze tra le due app, l’esame si concludeva con l’affermazione secondo cui Faround e Nearby erano “estremamente simili nella loro finalità ed impostazione generale” e che “le funzionalità di Nearby [erano] sovrapponibili a quelle di Faround”.

La mancata acquisizione del codice sorgente e la prova della violazione

Come abbiamo accennato, oggetto di studio da parte della CTU era stata soltanto l’interfaccia utente dei due programmi, vale a dire “la parte del programma più immediatamente percepibile dagli utenti”, e non il codice sorgente dell’app Nearby, che Facebook non aveva spontaneamente prodotto nonostante l’invito formulato dal giudice.

Facendo leva su questo dato, Facebook cercava di difendersi assumendo che non vi era prova della copia del codice sorgente.

Sul punto, il Tribunale di Milano precisava che “per le attività di derivazione/elaborazione non era necessario accedere al codice sorgente” e che la mancata acquisizione del codice sorgente del programma Nearby, “e di conseguenza il mancato raggiungimento della prova della copiatura da parte della convenuta [Facebook] del codice sorgente di Faround”, non era decisiva al fine dell’accertamento delle fattispecie contestate.

Le risultanze della consulenza tecnica, infatti, avevano messo in evidenza che Facebook aveva avuto in realtà modo di comprendere il funzionamento dell’applicazione e delle sue funzionalità e di analizzare nel dettaglio le modalità con le quali l’applicazione si interfaccia con Facebook sfruttando le API (Application Programming Interface), cioè le interazioni a basso livello che Facebook mette a disposizione dei terzi sviluppatori.

Business Competence aveva, infatti, sottoposto a Facebook un prototipo definitivo e funzionale di Faround per consentirne il collaudo e Facebook aveva avuto così modo di analizzare il funzionamento della app non solo “dal lato utente, ma anche dal lato interazione col mondo Facebook […] e quindi di conoscere i flussi dei dati che Faround scambiava con la piattaforma Facebook e le modalità con le quali l’applicazione s’interfacciava con Facebook”.

Oltre alle risultanze della CTU, il Tribunale, per prendere la sua decisione, si basava su una serie di “univoci e concordanti indizi”, quali il fatto che

i) l’applicazione di Facebook fosse stata lanciata in un breve arco di tempo rispetto a quella di Business Competence, cioè solo tre mesi dopo Faround[8];

ii) Facebook si fosse riservata espressamente “il diritto di analizzare le applicazioni, i contenuti e i dati di queste, per qualsiasi scopo, compreso quello commerciale”;

iii) Facebook si era riservata il diritto di “creare applicazioni che offrono funzioni simili alle applicazioni degli sviluppatori o comunque in concorrenza con queste”.

La app Faround e la sua tutela giuridica come banca dati implementata in forma di programma per elaboratore protetta dalla legge sul diritto d’autore

Prima di analizzare più da vicino la decisione del Tribunale, è necessario porsi una domanda: da un punto di vista giuridico, che cosa è l’app Faround?

In base alla sintetica definizione fornita dal Tribunale di Milano, essa è una “banca dati[9] implementata in forma di programma per elaboratore”.

Faround è dunque un’opera dell’ingegno che possiede alcuni aspetti tipici della banca di dati e altri tipici del software.

Per quanto riguarda il primo profilo, l’art. 2, n. 9, della legge sul diritto d’autore[10] (“Legge Autore”) definisce le banche di dati come le “raccolte di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo”.

Senza voler qui approfondire la (complessa) nozione giuridica di banca dati[11], possiamo sinteticamente dire che la Legge Autore protegge due tipi di database: quelli c.d. creativi e quelli protetti tramite un diritto c.d. sui generis.

Le banche dati creative sono quelle che “per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore” (art. 1, Legge Autore). Per assurgere a questo tipo di tutela la banca dati deve possedere il requisito della “creatività” che, per espressa disposizione di legge, si deve rinvenire alternativamente (o cumulativamente) nella “scelta” e/o nella “disposizione” del materiale. Il requisito della creatività[12] va dunque ricercato nella struttura (organizzativa) della banca dati, ed è proprio a questa che la Legge Autore offre tutela, escludendone invece il contenuto[13].

Il secondo livello di protezione è offerto dagli artt. 102-bis e 102-ter, Legge Autore che attribuiscono un diritto c.d. sui generis al c.d. “costitutore di una banca di dati”, vale a dire colui che “effettua investimenti rilevanti per la costituzione di una banca di dati o per la sua verifica o la sua presentazione, impegnando, a tal fine, mezzi finanziari, tempo e lavoro”.

Per quanto riguarda invece il software, la legge non offre una definizione di programma per elaboratore. Secondo la dottrina, il software è una sequenza di istruzioni espresse in un determinato linguaggio che, grazie al caricamento su un dispositivo, comandano lo svolgimento di determinate attività. In quanto creazione intellettuale, il software potrebbe astrattamente essere protetto o come brevetto per invenzione o come opera protetta dal diritto d’autore.

La Convenzione di Monaco sul brevetto europeo del 1973 ha escluso, tuttavia, la brevettabilità del software[14] e la protezione offerta ai programmi per elaboratore a livello comunitario e nazionale[15] è data dalla normativa in materia di diritto d’autore che protegge i programmi per elaboratore alla stregua di un’opera letteraria.

La Legge Autore, in particolare, protegge sia il codice sorgente (cioè il linguaggio di programmazione comprensibile all’uomo) sia il codice oggetto (vale a dire la veste eseguibile comprensibile solo all’elaboratore), sempre che sia presente il requisito della creatività, che anche nel caso del software può essere di tipo “semplice”[16].

In relazione a Faround, il Tribunale di Milano ha affermato che l’app in questione è una banca dati di carattere creativo, in quanto, seppure al momento del suo lancio sul mercato (agosto-settembre 2012) esistessero altri applicativi di geolocalizzazione, “nessuno raccoglieva i dati esclusivamente da Facebook e li organizzava in autonomia con tutte le funzionalità di Faround[17]; e ancora che sebbene l’appnon [fosse] originale in termini assoluti, [essa] reinterpreta[va] in modo intelligente informazioni già esistenti (incrociando dati presenti nel database degli utenti di Facebook con la posizione geografica di chi utilizza l’applicazione in quel momento), organizzando tali informazioni in modo da fornire agli utenti servizi che sono fruiti in modo completamente nuovo e molto più efficace”.

Il Tribunale ha riscontrato il requisito della creatività anche in relazione alla componente software della app, ritenuta dunque anch’essa proteggibile tramite diritto d’autore.

La contraffazione della app Faround da parte di Facebook e della sua app Nearby. Le funzionalità “sovrapponibili”

Una volta affermata la tutelabilità di Faround tramite diritto d’autore, ed esclusa l’autonoma creazione di Nearby da parte di Facebook, tenuto conto delle risultanze peritali e degli univoci e concordanti indizi di cui abbiamo detto, i giudici della Sezione Specializzata del Tribunale di Milano hanno ritenuto che l’app Nearby di Facebook fosse una elaborazione/derivazione dell’app Faround, dalla cui analisi Facebook aveva potuto trarre “le idee e i principi” su cui questo era basato e, con sentenza in data 1° agosto 2016, hanno accertato la violazione del diritto d’autore dell’app Faround da parte di Facebook nonché il compimento di atti di concorrenza sleale compiuti da parte di quest’ultima nei confronti di Business Competence, con tutte le pronunce consequenziali[18].

L’illecita attività di black box analysis e di decompilazione compiuta da Facebook sull’app Faround

Come abbiamo visto, uno degli elementi presi in considerazione dal Tribunale è stato il fatto che Facebook, sebbene non vi fosse prova dell’accesso al codice sorgente di Faround, avesse avuto accesso sia al prototipo dell’app sia al flusso dei dati che Faround scambiava con Facebook.

Secondo i giudici, Facebook era stata dunque “in condizione d’individuare facilmente le logiche di funzionamento di Faround, i criteri di selezione e organizzazione dei dati, in quanto poteva tracciare le chiamate alle funzioni messe a disposizione dall’API di Facebook”. Inoltre, attraverso l’analisi di Faround, Facebook “era in grado di conoscere in quale sequenza e in che modo l’applicazione […] accedeva al database di Facebook e prelevava i dati di proprio interesse”.

In altre parole, Facebook, tramite questa attività di analisi, avrebbe violato in primo luogo l’art. 64-ter, co. 3, Legge Autore, norma che permette, a determinate condizioni, di analizzare dall’esterno il funzionamento di un programma per elaboratore al fine di determinarne lo scopo e i principi matematici che ne fondano la base scientifica (c.d. “black box analysis”) [19].

Così come vi sarebbe stata, da parte di Facebook, violazione dell’art. 64-quater Legge Autore che consente la riproduzione del codice sorgente di un programma per elaboratore, senza il previo consenso del suo titolare, nel caso in cui questa attività sia indispensabile per consentire l’interoperabilità del software con altri programmi creati in via indipendente[20].

Secondo il Tribunale di Milano, Facebook aveva, tuttavia, svolto l’analisi di Faround per scopi estranei a quelli consentiti dalla legge – quale si poteva considerare quello volto al collaudo della app per rendere il programma fruibile agli utenti, essendosene cioè servita “per scopi commerciali”, volti “alla realizzazione di un altro programma in concorrenza”: sicché l’attività di Facebook era da considerarsi illecita.

Come abbiamo accennato, nel contratto stipulato con Business Competence, Facebook si era espressamente riservata il diritto di “analizzare le applicazioni, i contenuti e i dati di queste, per qualsiasi scopo, compreso quello commerciale”, nonché quello di “creare applicazioni che offrono funzioni simili alle applicazioni degli sviluppatori [di Business Competence: n.d.r.] o comunque in concorrenza con queste”.

Senonché, i giudici hanno ritenuto nulla la prima clausola e valida la seconda solo nella misura in cui viene interpretata secondo buona fede, e quindi in modo da presupporre l’autonomo sviluppo del programma da parte di Facebook, cosa che in realtà non è stata.

Se è vero infatti che la Legge Autore non protegge le funzionalità del software[21], è pur vero che Facebook è arrivata alla realizzazione di un’app avente “funzioni sovrapponibili” a quelle di Faround tramite un’attività di analisi illecita, in quanto finalizzata, come abbiamo visto, ad “attività di elaborazione/derivazione per finalità commerciali”, che hanno comportato secondo i giudici meneghini un approfittamento parassitario del lavoro e degli investimenti della concorrente Business Competence.

Gli atti di concorrenza sleale parassitaria compiuti da Facebook e la realizzazione di un’app avente funzioni simili a quella del concorrente

Oltre che lesiva dei diritti d’autore sull’app Faround, la condotta di Facebook è stata dunque anche ritenuta illecita ai sensi dell’art. 2598, n. 3 c.c., secondo cui compie atti di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo con conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

La slealtà della condotta di Facebook è consistita, secondo i giudici milanesi, nel fatto che la società “si è appropriata parassitariamente degli investimenti altrui per la creazione di un’opera dotata di rilevante valore economico”.

Come abbiamo detto, infatti, se è vero che la Legge Autore non protegge le funzioni di un software e che uno sviluppatore ha il diritto di offrire sul mercato applicazioni aventi funzioni e servizi simili a quelli di un concorrente, secondo il Tribunale “il diritto di Facebook di creare applicazioni che offrano funzioni e servizi simili alle applicazioni degli sviluppatori, o comunque in concorrenza con queste, sussiste solo quando esse siano sviluppo autonomo e indipendente e non va inteso […] in modo da rendere lecita un’attività che, viceversa, è illecita, poiché la concorrenza è esercizio di un legittimo diritto solo quando non sia sleale”.

La vertenza che ha visto contrapposte la società Satispay S.p.A. e il gruppo Sisal S.p.A. in relazione all’app “Satispay”, e i principi generali in materia di tutela giuridica delle app, nella seconda parte di questo articolo.

  1. Così i dati raccolti dalla School of Management del Politecnico di Milano e riportati nell’articolo Esistono 2 milioni di app, perché ne usiamo quattro? pubblicato su https://www.esquire.com/it/lifestyle/tecnologia/a26997659/app-piu-usate/.
  2. Vale a dire le sezioni istituite presso un numero ristretto di sedi giudiziarie che hanno competenza in materia di proprietà industriale e intellettuale (tra cui il diritto d’autore) e concorrenza sleale c.d. interferente, cioè attuata con comportamenti che interferiscono con un diritto di esclusiva in materia di proprietà industriale.
  3. In primo grado il Tribunale di Milano si è pronunciato con sentenza in data 1 agosto 2016 solo in merito all’an del giudizio, vale a dire in relazione alla contraffazione dei diritti di Business Competence S.r.l.. Questa sentenza è stata appellata e confermata dalla Corte di Appello di Milano in data 16 aprile 2018.Per quanto riguarda il quantum, vale a dire l’aspetto relativo al risarcimento del danno, in primo grado Facebook è stata condannata a un risarcimento di 350.000 Euro nei confronti di Business Competence S.r.l. (Trib. Milano, 17 settembre 2019), mentre in secondo grado la Corte di Appello ha condannato Facebook a risarcire la somma di oltre 3.800.000 Euro (App. Milano, 5 gennaio 2021).Nei confronti delle due sentenze di appello sono stati proposti da Facebook altrettanti ricorsi davanti alla Corte di Cassazione, pendenti al momento della redazione di questo articolo.
  4. Nella sentenza del Tribunale di Milano del 1° agosto 2016, Faround viene descritta come applicazione in grado di selezionare e organizzare, attraverso un algoritmo, “i dati presenti sui profili Facebook degli utenti che acced[ono] a Faround e consent[e] di visualizzare, su una mappa interattiva e divisi per categoria, gli esercizi commerciali più prossimi all’utente, completi dei dati relativi e di eventuali offerte, nonché il gradimento espresso dalla community Faround”.
  5. Il procedimento di descrizione giudiziale è previsto dall’art. 129 del Codice della Proprietà Industriale (D. Lgs. n. 30/2005) che consente di ottenere la prova della violazione di un diritto.
  6. È principio costantemente affermato in giurisprudenza quello per cui “In tema di diritto d’autore il concetto giuridico di creatività non coincide con quello di creazione, originalità e novità assoluta, riferendosi, per converso, alla personale e individuale espressione di un’oggettività appartenente alle categorie elencate, in via esemplificativa, nell’art. 1 della legge sul diritto d’autore, di modo che un’opera dell’ingegno riceve protezione a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo, seppur minimo, suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore, con la conseguenza che la creatività non può essere esclusa soltanto perché l’opera consiste in idee e nozioni semplici, ricomprese nel patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia; inoltre, la creatività non è costituita dall’idea in sé, ma dalla forma della sua espressione, ovvero dalla sua soggettività, di modo che la stessa idea può essere alla base di diverse opere che sono o possono essere diverse per la creatività soggettiva che ciascuno degli autori spende e che, in quanto tale, rileva ai fini della protezione” (così Trib. Milano, 12 maggio 2014).
  7. In particolare, le funzionalità in comune erano quelle di: i) fornire il posizionamento fisico dell’utente attraverso la geolocalizzazione; ii) individuare i luoghi nelle vicinanze che hanno una pagina Facebook (ristoranti, locali, alberghi, etc.); iii) consentire di ordinare i risultati secondo diversi parametri e criteri di ricerca; iv) fornire informazioni relative alla distanza rispetto alla posizione dell’utente.
  8. Questo arco temporale è stato ritenuto “talmente breve da escludere … un autonomo sviluppo del programma” da parte di Facebook.
  9. La qualifica di Faround come database deriva dal fatto che la app in questione, come abbiamo visto, raccoglieva i dati relativi a diversi esercizi commerciali, le loro eventuali offerte e l’indice di gradimento espresso dagli utenti.
  10. Legge 22 aprile 1941 n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, e succ. mod.
  11. Per un approfondimento in merito ci permettiamo di rimandare a F. Minio, Banche dati museali, diritto d’autore, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, in Aedon, Il Mulino, 3/2020.
  12. Così come per la maggior parte delle opere protette dal diritto d’autore, la giurisprudenza richiede un livello di creatività c.d. “basso”, che si rinviene tutte le volte in cui l’autore abbia operato una scelta tra una gamma sufficientemente ampia di varianti. Come affermato anche dal Tribunale nel caso che ci occupa, perché sia presente il requisito della creatività è sufficiente infatti “un atto creativo, seppur minimo, suscettibile di estrinsecazione nel mondo esteriore”.
  13. L’art. 2 precisa infatti che “la tutela delle banche di dati non si estende al loro contenuto e lascia impregiudicati i diritti esistenti su tale contenuto”.
  14. Art. 53, co. 3, Convenzione Brevetto Europeo e art. 45, co. 3, D. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 – Codice del Diritto Industriale. Si tenga, tuttavia, presente che, poiché la legge esclude la brevettabilità dei softwarein quanto tali”, la giurisprudenza ha ristretto il divieto di brevettazione ai soli “processi mentali” privi di applicazione pratica e ammette invece il brevetto per le invenzioni attuate tramite un programma per elaboratore quando sono in grado di produrre un “effetto tecnico”.
  15. Direttiva 91/250/CE e artt. 1, 2 e 64-bis e ss. Legge Autore.
  16. Anche in materia di software la giurisprudenza ritiene che “la tutela conferita dalla legge d’autore presuppone una creatività semplice, ravvisabile in tutti i casi in cui l’autore abbia operato una scelta discrezionale all’interno di un numero sufficientemente ampio di varianti in cui esprimersi, dovendosi escludere solo le forme necessitate dalla funzione utilitaria o assolutamente banali e standardizzate” (Trib. Milano, 16 febbraio 2012, Rep. AIDA, 2013, 985). Alcuni autori ritengono che il software sia proteggibile al solo riscontro del requisito della c.d. novità soggettiva e che dunque è sufficiente che un programma non sia stato copiato.
  17. Il requisito della creatività della banca dati Faround è stato confermato dalla Corte di Appello secondo cui “una applicazione che reinterpreta informazioni già esistenti attraverso l’incrocio dei dati presenti nel database degli utenti di un social network con la funzione di geolocalizzazione, la quale consente di individuare la posizione geografica di chi utilizza l’applicazione, e organizza tali informazioni in modo originale va qualificata come banca dati tutelata” (App. Milano, 16 aprile 2018).
  18. Tra cui: i) l’inibitoria all’utilizzo dell’app Nearby da parte di Facebook; ii) il pagamento di una penale di Euro 5.000 per ogni giorno di ulteriore utilizzo di Nearby; iii) la pubblicazione della sentenza, oltre che su Il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, anche sulla pagina iniziale del sito internet www.facebook.com; iv) la condanna al risarcimento del danno.
  19. L’art. 64-ter, co. 3, Legge Autore stabilisce che “chi ha il diritto di usare una copia del programma per elaboratore può, senza l’autorizzazione del titolare dei diritti, osservare, studiare o sottoporre a prova il funzionamento del programma, allo scopo di determinare le idee ed i principi su cui è basato ogni elemento del programma stesso, qualora egli compia tali atti durante operazioni di caricamento, visualizzazione, esecuzione, trasmissione o memorizzazione del programma che egli ha il diritto di eseguire. Le clausole contrattuali pattuite in violazione del presente comma e del comma 2 sono nulle”. Ai sensi del successivo articolo 64-quater Legge Autore l’attività di analisi di un software è anche consentita al fine di conseguire la sua interoperabilità con un altro programma.
  20. L’art. 64-quater, co. 1, Legge Autore stabilisce che “L’autorizzazione del titolare dei diritti non è richiesta qualora la riproduzione del codice del programma di elaboratore e la traduzione della sua forma ai sensi dell’art. 64-bis, lettere a) e b), compiute al fine di modificare la forma del codice, siano indispensabili per ottenere le informazioni necessarie per conseguire l’interoperabilità, con altri programmi, di un programma per elaboratore creato autonomamente”. Il successivo comma 2 statuisce poi che “Le disposizioni di cui al comma 1 non consentono che le informazioni ottenute in virtù della loro applicazione: a) siano utilizzate a fini diversi dal conseguimento dell’interoperabilità del programma creato autonomamente; b) siano comunicate a terzi, fatta salva la necessità di consentire l’interoperabilità del programma creato autonomamente; c) siano utilizzate per lo sviluppo, la produzione o la commercializzazione di un programma per elaboratore sostanzialmente simile nella sua forma espressiva, o per ogni altra attività che violi il diritto di autore”.
  21. Sul punto cfr. Corte di Giustizia CE, 2 maggio 2012, causa C-406/10, SAS Institute Inc vs World Programming Ltd, secondo cui non sono proteggibili le funzionalità di un programma per elaboratore. Secondo i giudici comunitari, infatti, “ammettere che la funzionalità di un programma per elaboratore possa essere tutelata dal diritto d’autore equivarrebbe ad offrire la possibilità di monopolizzare le idee, a scapito del progresso tecnico e dello sviluppo industriale”. Costituisce infatti principio pacifico nell’ambito del diritto d’autore quello per cui la Legge Autore non protegge mai le idee, ma esclusivamente le forme di espressione materiali di tali idee.
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