Legislazione

La posizione di garanzia dei sindaci: evoluzione normativa e giurisprudenziale

Secondo la Corte, per una corretta ricostruzione del dolo, è necessario provare l’effettiva conoscenza in concreto, da parte dei sindaci, di peculiari segnali d’allarme dell’evento dannoso in realizzazione

Pubblicato il 20 Mag 2021

Giulio Guglielmotti

Avvocato praticante tirocinante giudiziario

L’art. 2403 c.c. demanda al collegio sindacale la vigilanza sull’osservanza delle leggi e dello statuto societario, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento, nonché il controllo contabile nei soli casi di società non quotate che non siano tenute alla redazione del bilancio consolidato. Inoltre, l’art. 2407 c.c., al comma 1, chiarisce che la responsabilità dei sindaci è da considerarsi direttamente proporzionale alla “professionalità e diligenza richiesta dalla natura dell’incarico”, mentre al secondo comma, enuncia il principio solidaristico di responsabilità che lega il collegio sindacale agli amministratori della società, nei casi in cui un danno, derivante da fatti o omissioni di questi ultimi, non si sarebbe prodotto se il collegio avesse vigilato in conformità degli obblighi della loro carica.

Le criticità dell’ipotesi di responsabilità

A tale combinato normativo, la tradizione giurisprudenziale penale riconduce il fondamento di un obbligo giuridico di impedimento ex art. 40 cpv. c.p., posto in capo ai singoli membri del collegio sindacale societario. Questi, secondo tale giurisprudenza, sono titolari di una posizione di garanzia dalla quale deriverebbe la loro responsabilità penale per concorso omissivo nei reati commessi dagli amministratori della società, in tutti i casi di violazione dello specifico dovere giuridico di controllo, di cui ai suindicati articoli del codice civile, unitamente agli artt. 149 T.U.F., in ambito di società quotate, e 14 C.C.I.I., di prossima entrata in vigore.

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Questa ipotesi di responsabilità, predominante su altre sparute figure delittuose proprie dell’organo collegiale, presenta molteplici criticità rispetto al:

  • principio di legalità, in particolare in merito all’individuazione del perimetro del dovere di impedimento e della condotta attesa dall’ordinamento;
  • principio di responsabilità per fatto proprio, e dunque rispetto all’accertamento del nesso di causalità intercorrente tra l’omessa vigilanza e la consumazione del reato;
  • principio di colpevolezza, ovvero all’accertamento del dolo.

Il presente contributo, al fine di circoscrivere tali criticità, si propone di analizzare l’evoluzione giurisprudenziale relativa ai tre diversi momenti fondamentali per la formulazione di un’imputazione a carico dei membri del collegio sindacale per concorso omissivo nei reati commessi dall’amministrazione societaria.

I limiti della posizione di garanzia dei sindaci

Premesse le coordinate normative, è necessario definire i limiti del controllo sindacale e i confini della posizione di garanzia esigibile dal sindaco uti singulus, al fine di evitarne una dilatazione incontrollata, contraria al principio di legalità. Infatti, l’art. 40 cpv. c.p., ponendo una clausola di rinvio in bianco, di fatto, delega all’interprete l’arduo compito di ricostruire, con esattezza, il contenuto dei doveri e dei poteri attribuiti al collegio sindacale, evitando un’indebita moltiplicazione delle posizioni di garanzia del singolo sindaco. Si rileva, dunque, che la prassi delle contestazioni di reato a carico di sindaci prevede, frequentemente, l’omesso impedimento di reati fallimentari, episodicamente, di reati di false comunicazioni sociali e aggiotaggio, mentre raramente, di reati tributari o in materia ambientale.

Ciò detto, soffermandosi brevemente sull’evoluzione della giurisprudenza in materia, pur potendosi evidenziare un progressivo restringimento del perimetro della posizione di garanzia dei sindaci, non si può negare che questo sia ancora decisamente ampio, a testimonianza di un’impostazione rigorista della Suprema Corte, orientata a soddisfare esigenze di politica criminale, consolidatesi a seguito degli scandali finanziari che hanno segnato la fine degli anni 90 e gli inizi del nuovo millennio. Infatti, la Cassazione partiva da un’acritica presunzione di un obbligo di garanzia ex art. 40 cpv. c.p. in capo ai membri del collegio sindacale, scevra da indagini sull’esistenza di effettivi poteri impeditivi di illeciti commessi dagli amministratori (Cass. Pen. 849/91), nonché dall’assunto che i sindaci, chiamati a vigilare sul rispetto dei principi di corretta amministrazione societaria, devono valutare i criteri seguiti dagli amministratori nei processi decisionali e gestionali, allo scopo di scongiurare eventuali “operazioni di mero rischio”, senza però entrare nel merito degli stessi (sent. Frattini).

A questo punto è necessario precisare che, per poter considerare la responsabilità penale omissiva come per fatto proprio e non per fatto altrui, è necessario essere in presenza di un garante dotato di poteri impeditivi idonei a scongiurare il verificarsi dell’evento lesivo, e su cui gravi, effettivamente, un obbligo giuridico di impedirlo. Inoltre, è altresì necessario che l’esercizio di tale potere impeditivo possa, in concreto, evitare l’evento con un “elevato grado di credibilità razionale”. Sul punto, la giurisprudenza ha affermato il dovere dei membri del collegio sindacale di “attivare non solo i poteri tipici direttamente impeditivi (poteri tipizzati dal legislatore o semplicemente identificabili in concreto per la loro idoneità causale), ma anche, se necessario per scongiurare l’evento, poteri indirettamente impeditivi atipici” (Cass. Pen. 28932/11)[1], stabilendo altresì che il momento valutativo del controllo sindacale, successivo a quello ricognitivo, non si esaurisce in una mera verifica formale ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione (Cass. Pen. 11308/2020).

Il nesso di causalità

Dunque, in considerazione dell’ampiezza della posizione di garanzia dei sindaci, risulta necessaria una ricostruzione rigorosa del nesso eziologico tra l’omessa vigilanza e la consumazione del reato, verificando che la mancata attivazione del controllo sindacale abbia avuto effettiva incidenza nella commissione del reato da parte degli amministratori, secondo i criteri di causalità così come espressi dalla sent. Franzese[2]. Solo procedendo in questo modo si può scongiurare il pericolo di un’illegittima imputazione derivante da responsabilità per fatto altrui.

Al riguardo, si registra un progressivo allontanamento della giurisprudenza da una considerazione del nesso causale in re ipsa, dunque, presunto senza verificare la concreta possibilità per il sindaco di attivare poteri idonei a impedire l’evento (Cass. Pen. 31163/11)[3], o quantomeno basato su un accertamento parziale e statistico della causalità, volto ad accertare la responsabilità “con un apprezzabile grado di probabilità” (Cass. Pen. 42519/12). Le più recenti pronunce, invece, escludono che il concorso dei sindaci possa discendere tout court dal mancato esercizio dei doveri di controllo, ma questo necessita, invece, di “ valide ragioni che inducano a ritenere che l’omesso controllo abbia avuto effettiva incidenza causale nella commissione del reato da parte degli amministratori” (Cass. Pen. 26339/2014) e che essi abbiano dato un contributo giuridicamente rilevante, sotto l’aspetto causale, alla verificazione dell’evento (Cass. Pen. 12186/19).

L’elemento soggettivo

Nel tempo la giurisprudenza ha saputo discostarsi dal ricorso ai ragionamenti presuntivi rispetto alla prova non soltanto del nesso causale, ma anche dell’elemento soggettivo del reato. Infatti, considerando le più frequenti ipotesi di concorso omissivo doloso dei sindaci nel delitto doloso degli amministratori, a lungo il dolo è stato presunto dai giudici. La Corte di Cassazione parificava l’omessa attivazione del controllo sindacale alla volontà di porsi in una situazione di non percezione di oggettivi segnali d’allarme, impossibili da ignorare, e dunque di consapevole accettazione del rischio del verificarsi di condotte illecite (Cass. Pen. 19509/2005)[4]. Ma, citando Pedrazzi, tale ricostruzione porta a celare “la colpa sotto le mentite spoglie del dolo”, così equiparando la conoscenza con la conoscibilità dell’evento da impedire[5]. Pertanto, la Suprema Corte, con la sent. Bipop Carire del 2007, supera l’impasse soffermandosi sul momento rappresentativo dell’evento ed affermando tre principi fondamentali in tale ambito:

  1. “non può esservi equiparazione tra conoscenza e conoscibilità dell’evento che si deve impedire, attenendo la prima all’area della fattispecie volontaria e la seconda, quale violazione ai doveri di diligenza, all’area della colpa”;
  2. i segnali d’allarme dell’evento delittuoso in divenire devono “essere perspicui e peculiari in relazione all’evento”, cioè non possono assumere rilievo nell’accertamento del dolo fatti inidonei a manifestare agli occhi dell’osservatore l’esistenza di un reato in itinere;
  3. è altresì necessario “l’accertamento del grado di anormalità dei segnali d’allarme, non in linea assoluta, ma per l’amministratore non operativo (oltre che la prova della percezione degli stessi in capo agli imputati)”.

Conclusioni

Riassumendo, secondo la Corte, per una corretta ricostruzione del dolo, è necessario provare l’effettiva conoscenza in concreto, da parte dei sindaci, di peculiari segnali d’allarme dell’evento dannoso in realizzazione.

Infine, la ricostruzione del dolo viene completata dalla sent. 42519/2012 sul crack Credito Commerciale Tirreno, che soffermandosi sul momento volontaristico, afferma la non idoneità alla prova del dolo (neanche eventuale), da parte della mera inerzia del sindaco di fronte ai segnali d’allarme (al più provante una condotta colposa), essendo necessaria la dimostrazione della volontaria e cosciente inerzia in presenza di una rappresentazione del segnale d’allarme come dimostrativo di un futuro evento dannoso.

Concludendo, si rileva che tale pronuncia conferma la precedente sentenza Bipop Carire sul punto della netta distinzione tra astratta conoscibilità del segnale d’allarme (determinante una responsabilità a titolo di colpa) e conoscenza concreta (determinante una responsabilità a titolo di dolo)[6]. Mentre la supera in punto di prova della volontà del reato: la mera inerzia dell’amministratore privo di deleghe non prova il dolo, essendo necessaria la dimostrazione di una “decisione a favore della possibile offesa del bene giuridico”[7].

Note

  1. Decisione c.d. “Parmalat – aggiotaggio” (Cass. pen. 28932/11), caso paradigmatico da cui emerge pienamente l’impostazione rigorosa della Suprema Corte, la quale sosteneva che, per impedire la diffusione di false notizie in merito all’andamento societario, il garante avrebbe dovuto/potuto, oltre che informare gli organi di controllo interni ed esterni, attivare “strumenti esterni alla propria funzione, ma facilmente disponibili come l’informazione a mezzo stampa”.
  2. SS.UU. Franzese (Cass. pen. 30328/2002): “il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.
  3. “non è indispensabile (né possibile) conoscere con certezza scientifica (non trattandosi di un esperimento ripetibile) se attivandosi il [sindaco] e, con lui, il collegio l’evento sarebbe stato sicuramente evitato nella sua realizzazione o, almeno, in alcune modalità della sua realizzazione, ma tale è il presupposto dal quale il legislatore muove”, tanto che potrebbe parlarsi di “nesso eziologico in re ipsa”.
  4. “Poiché la prova del dolo si desume dalle emergenze, a fronte dei fatti di mala gestione di soggetto sottoposto a controllo, secondo giurisprudenza univoca e consolidata, è l’imputato controllore (…) a dover fornire elementi atti a superare la presunzione di responsabilità a suo carico”.
  5. Per giungere ad un’affermazione di responsabilità penale, è sufficiente che “venga dimostrato che l’amministratore nonoperativo abbia avuto percezione dei sintomi di illecito o che le attività incriminate fossero talmente anomale da non poter sfuggire” (Cass. pen., Sez. V, 22.11.2010, n. 41136).
  6. “per dare senso e concretezza al dolo eventuale (…) come parametro minimo per la riferibilità psicologica dell’evento pregiudizievole al soggetto attivo del reato, occorre che il dato indicativo del rischio di verificazione (del “segnale d’allarme”, per intendersi) dell’evento stesso non sia stato soltanto conosciuto, ma è necessario che l’amministratore se lo sia rappresentato come dimostrativo di fatti potenzialmente dannosi e non di meno sia rimasto inerte”.
  7. In presenza di una mera inerzia “non si potrebbe ancora discutere di dolo, neppure nella forma del dolo eventuale, che richiede pur sempre da parte del soggetto attivo (…) la determinazione di orientarsi verso la lesione o l’esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice”.
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