Sicurezza

Sicurezza informatica, il ruolo del fattore umano

Nonostante tutte le nuove tecnologie e le strategie, e il ricorso all’intelligenza artificiale, utilizzati dagli esperti di sicurezza, il comportamento umano resta il punto debole. Dal punto di vista informatico è caratterizzato da superficialità e si presta a rimanere vittima di campagne di phishing e social engineering

Pubblicato il 29 Apr 2020

Claudio Augusto

Chief Information Officer - IT manager

Non appare poi tanto strano che nel mezzo della pandemia di Covid-19 si siano amplificati gli attacchi informatici, mentre invece fa riflettere il fatto che le modalità di attacco, messe in atto dagli hacker, non abbiano richiesto alcun adattamento o modifica rispetto ai cambiamenti nel frattempo intervenuti nel modo di lavorare, uno su tutti lo smart working massivo.

La spiegazione a questo fenomeno è che non è variato il principale target dei criminali informatici: la vulnerabilità del fattore umano.

Il fattore umano come elemento di debolezza del sistema

Quando si tratta di violazioni, ed è già noto da tempo, tutte le strade portano ancora all’elemento umano. La stragrande maggioranza dei criminali informatici non effettuano più prevalentemente attività di hacking, bensì accedono ai sistemi e infrastrutture utilizzando credenziali deboli, di default, rubate o comunque compromesse. Questo è dimostrato dalle altissime percentuali di violazioni della sicurezza che vengono registrate come aventi origine da credenziali privilegiate compromesse.

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Nonostante tutte le nuove tecnologie, strategie e anche il recente ricorso all’intelligenza artificiale utilizzati dagli esperti di sicurezza (ma anche dagli hacker), una cosa rimane costante: la debolezza del fattore umano. Il comportamento umano è fallibile ed è caratterizzato, dal punto di vista informatico, da superficialità e approssimazione e questo è chiarissimo agli attori delle minacce che sfruttano frequentemente queste carenze quando eseguono campagne di phishing e social engineering.

Una buona notizia è che la spesa globale per la sicurezza informatica è in continua crescita, quindi sembra che stia crescendo la consapevolezza che violazioni e le compromissioni degli ambienti informatici la stanno facendo da padrone e che bisogna reagire.

Meno buono è sapere che la gran parte del budget di sicurezza delle aziende viene speso per soluzioni che affrontano solo in parte i problemi di sicurezza attuali, spesso limitandosi a proteggere il solo perimetro delle proprie reti e sistemi, trascurando la protezione, la gestione e il monitoraggio degli accessi privilegiati.

Le soluzioni Privileged Access Management (PAM)

Ad esempio, si sente ancora poco parlare di progetti di adozione di soluzioni di Privileged Access Management (PAM) che potrebbero irrobustire le soluzioni di Identity and Access Management (IAM) che si limitano, normalmente, a gestire in modo centralizzato gli utenti, le chiavi di accesso e le autorizzazioni di accesso alle risorse.

Una soluzione PAM ha almeno questi obiettivi principali:

  • contrastare l’escalation di privilegi non autorizzati e le attività malevole con tecniche di pass the hash, pass the ticket, spear phishing, etc;
  • mantenere un ambiente bastion separato rispetto a quello di IAM in modo che non sia interessato da attacchi dannosi e che consenta di continuare a mantenere il controllo nel caso il sistema IAM sia stato compromesso;
  • isolare l’uso degli account con privilegi per ridurre il rischio di furto delle credenziali;
  • fornire informazioni più dettagliate sulla modalità d’uso degli account amministrativi;
  • concedere autorizzazioni che scadono dopo un periodo di tempo specificato.

Gli hacker, come abbiamo detto, stanno sempre di più spostando le loro tattiche malevoli privilegiando gli attacchi alle identità digitali, vista la minor resistenza che trovano sul campo. Sanno bene che si trovano di fronte a una sterminata prateria di account con password non sicure e di utenti non addestrati a riconoscere e respingere un attacco.

È impressionante scoprire che tanti sistemi ancora non adottano dei banali vincoli di autenticazione con impostazioni di password robuste, che scadono spesso, che non possono essere riutilizzate e che vengono bloccate al raggiungimento di un numero massimo di tentativi errati di utilizzo.

Vi è da dire che nessun sistema e nessuna rete è totalmente inviolabile, ma lo stato di enorme diffusione degli attacchi e violazioni portate a termine, ci parlano di altri fronti di violabilità.

È il caso quindi di porsi qualche domanda:

  • si continuerà ciecamente a spendere sempre più soldi per rafforzare il solo perimetro aziendale?
  • conviene iniziare a gestire e limitare i movimenti degli utenti all’interno di esso?
  • costa veramente tanto mettere in campo delle iniziative attendibili di gestione della sicurezza informatica e di formazione rivolta agli utenti aziendali?

In questo caso possiamo riflettere sulla possibilità di utilizzare soluzioni PAM, soprattutto se ci troviamo a gestire infrastrutture critiche e dati sensibili (“dati particolari” nel linguaggio GDPR) e possiamo decidere di imporre un migliore controllo sul fattore umano volendo portare significativi miglioramenti nella prevenzione della violazione dei dati.

A questo punto dovremmo essere convinti che il solo utilizzo di nome utente e password, per accedere agli ambienti informatici, non sia più sufficiente, ancor più vero se si tratta di sistemi critici e a dati aziendali sensibili.

L’importanza dell’autenticazione a più fattori (MFA)

Come si fa a verificare se l’utente che sta accedendo è la persona autorizzata o è un malintenzionato che ha acquistato banalmente una password compromessa presente nel dark web scegliendo, come se fosse al supermarket, nei tanti database trafugati contenenti decine di milioni di dati?

Semplicemente non si può fare senza ricorrere ad altre misure di sicurezza, come quella di attivare l’autenticazione a più fattori (MFA), che è quella più banale e semplice da attuare per contrastare l’utilizzo di credenziali compromesse.

MFA è un metodo di conferma dell’identità di un utente, avviato nel momento in cui tenta un accesso a un sistema, che consiste nel dover fornire due o più elementi di prova (fattori) della propria identità, ad esempio:

  • quello che solo l’utente sa (la conoscenza della password);
  • il possesso di qualcosa che solo l’utente ha (un cellulare autorizzato e riconosciuto su cui riceve o un codice da utilizzare una tantum oppure una validazione via app);
  • qualcosa che l’utente è con dimostrazione fisica (impronta digitale, riconoscimento facciale, iride).

Gli utenti bancari, possessori di bancomat, da sempre utilizzano il sottoinsieme di MFA, ovvero 2FA (autenticazione a due fattori), per il prelievo di denaro da uno sportello Atm, adoperando contemporaneamente una carta (qualcosa che l’utente possiede) e un pin (qualcosa che l’utente conosce).

E ormai anche tutti gli utenti di home banking conoscono nella pratica quotidiana MFA, dall’entrata in esercizio della direttiva europea sui servizi di pagamento, anche detta PSD2 (Payment Services Directive 2), che prevede normalmente l’utilizzo come secondo fattore di un’app predisposta dalla banca da installare sul proprio smartphone, se si vogliono continuare ad utilizzare i servizi bancari online.

Quindi molti normali e comuni utenti sono già dei “felici” utilizzatori di MFA, ma le aziende sembrano ignorare questa importante contro misura a protezione dei propri sistemi informatici, nonostante sia già disponibile per tanti ambienti.

Nuove misure di sicurezza

Il tema, che può apparire quasi filosofico, prevede il “non fidarsi di niente e di nessuno”.

Esprimere riserve sulla fiducia, implicata nel riconoscere un’identità digitale, è il necessario substrato appunto per poter concedere fiducia, in tempo reale e in modo dinamico, fornendo privilegi minimi, verificando chi richiede l’accesso, controllando il contesto della richiesta e considerando il rischio dell’ambiente di accesso.

Una politica di sicurezza seria, dovrebbe, come minimo, negare l’utilizzo di account di accesso anonimi, account condivisi tra più persone e soprattutto account che abbiano privilegi di accesso eccedenti le reali necessità operative in un dato momento. Come anche l’accesso a dati sensibili, dovrebbe essere previsto con minimi privilegi e solo per il periodo di tempo necessario (alias azioni e verifiche che facciano scattare revoche proceduralizzate), oltre al ricorso della crittografia.

Più in generale e in forma estesa, un valido soccorso nella pratica della sicurezza informatica, lo troviamo nelle misure minime di sicurezza ICT i cui fondamentali punti di riferimento, i controlli e relative azioni sono indicate dal CIS Center for Internet Security – e dal CINI Cyber Security National Lab dell’Università la Sapienza di Roma – e rappresentano una guida per incrementare il livello di cyber security di ogni organizzazione anche per le Pmi italiane.

Non a caso, misure minime di sicurezza ICT, sono state anche emanate dall’AgID, con adozione obbligatoria, da oltre due anni, per tutte le pubbliche amministrazioni italiane.

Tratti dai suddetti riferimenti, di seguito si elencano degli indicatori tangibili e azioni pratiche per valutare e migliorare il livello di sicurezza informatica aziendale, al fine di contrastare le minacce informatiche più frequenti:

  1. inventario dei sistemi, dispositivi, software, servizi e applicazioni informatiche in uso entro il perimetro aziendale.
  2. servizi web (social network, cloud, email, spazio web, etc) offerti da terze parti a cui si è registrati siano quelli strettamente necessari.
  3. individuare le informazioni, i dati e i sistemi critici per l’azienda affinché siano adeguatamente protetti.
  4. nominare formalmente un referente responsabile per il coordinamento delle attività di gestione e protezione delle informazioni e dei sistemi informatici.
  5. identificare e rispettare le leggi e/o i regolamenti con rilevanza in tema di cybersecurity che risultino applicabili per l’azienda.
  6. tutti i dispositivi che lo consentono siano dotati di software di protezione (antivirus, antimalware, etc) regolarmente aggiornati.
  7. le password siano diverse per ogni account, e abbiano complessità adeguata, valutando laddove necessario l’utilizzo dei sistemi di autenticazione più sicuri (es. autenticazione a più fattori).
  8. il personale autorizzato all’accesso, remoto o locale, ai servizi informatici disponga di utenze personali non condivise con altri; l’accesso sia opportunamente protetto; i vecchi account non più utilizzati siano disattivati.
  9. ogni utente possa accedere solo alle informazioni e ai sistemi di cui necessita e/o di sua competenza.
  10. la configurazione iniziale di tutti i sistemi e dispositivi sia eseguita da personale esperto, responsabile per la configurazione sicura degli stessi. Le credenziali di accesso di default presenti nei vari sistemi, siano sempre sostituite o disattivate.
  11. siano eseguiti periodicamente backup delle informazioni e dei dati critici per l’azienda (definiti al punto di controllo 3 di questo elenco. I backup siano conservati in modo sicuro e verificati periodicamente.
  12. le reti e i sistemi siano protetti da accessi non autorizzati attraverso strumenti specifici (es. Firewall e altri dispositivi/software anti-intrusione).
  13. tutti i software in uso (inclusi i firmware) siano aggiornati all’ultima versione consigliata dal produttore. I dispositivi o i software obsoleti e non più aggiornabili siano dismessi.
  14. monitorare e analizzare regolarmente log e registri di audit.
  15. siano effettuati test di penetrazione e simulazione di contromisure e condizioni di ripristino in caso di incidenti.
  16. sia implementato un programma di sensibilizzazione e formazione sulla sicurezza rivolto ai dipendenti.

Forse sembrerà incredibile, ma politiche di sicurezza di questo genere sono ancora sconosciute in tante aziende.

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