Analisi

Le trasformazioni delle catene del valore e la crescita del rischio

La globalizzazione e la deverticalizzazione dei settori produttivi comportano dei vantaggi ma anche dei rischi per le filiere del valore. Per questo anche la supply chain deve ragionare in un’ottica di risk management

Pubblicato il 04 Set 2019

A chi da decenni studia le dinamiche attraverso cui si formano e si aggregano le catene del valore, sono evidenti una serie di modificazioni strutturali sempre più marcate e rapide, che hanno caratterizzato l’evoluzione delle catene di fornitura negli ultimi decenni.
Il più antico tra i fenomeni che vorrei discutere è quello della deverticalizzazione, nato forse una ventina di anni fa quando in particolare nel settore automotive ci si accorse che si possono progettare molti modelli, anche apparentemente diversi, impiegando il medesimo pianale, propulsore e power-train, attraverso una sapiente revisione estetica dei soli componenti a vista del cliente. Il ridisegno in ottica modulare delle gamme prodotto, ispirato dalla logica delle “piattaforme” ha progressivamente consentito di rivedere le reti di fornitura e con esse il confine tra produzione interna e fornitura. Ciò ha consentito in molti settori una spettacolare riduzione della complessità di fornitura, passando dalle molte centinaia di fornitori, ad alcune decine di fornitori di primo livello, ciascuno dei quali si fa carico di una sotto-rete di qualche decina di fornitori “second-tier” e così via.

La spinta della globalizzazione

Il fenomeno di gran lunga più visibile e dirompente, è invece stato quello della globalizzazione. Spinte dalla ricerca di nuovi mercati così come dall’esigenza di ottenere vantaggi competitivi (non solo, ma soprattutto, di costo) le imprese hanno progressivamente sviluppato le proprie attività di fornitura, produzione e vendita a livello sempre più planetario. Ma globalizzare non ha voluto solo dire cercare i fornitori più convenienti su scala mondiale anziché locale o nazionale, oppure aprire fabbriche in aree a basso costo della manodopera. Ha soprattutto significato terminare una fase di confortante “torpore” geografico, per entrare in un periodo enormemente più dinamico, in cui alla fase del cosiddetto offshoring, è seguito un altrettanto rapido fenomeno di reshoring, o addirittura backshoring.

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Gli impatti della filosofia Lean

Un’altra linea di sviluppo su cui le imprese manifatturiere hanno lavorato moltissimo è nata con il famoso libro “The machine that changed the world” attraverso cui Womack e Jones fin dal 1991 hanno illustrato ai produttori occidentali la filosofia e le tecniche lean già da tempo impiegate con grandissimo successo dalle imprese giapponesi. L’applicazione massiccia e su scala planetaria del lean thinking (anche se ha assunto nomi diversi in aziende diverse, quali: world class manufacturing, oppure just-in-time) ha progressivamente portato a catene del valore snelle, veloci, ed a “flusso teso”, quindi con pochissimi stock. Un altro effetto dell’applicazione della filosofia lean è stato quello di privilegiare le partnership di fornitura rispetto alle relazioni di mercato, ossia di passare dal dual-sourcing al single sourcing.

Il fenomeno della Coda lunga

Nel frattempo si stava progressivamente realizzando una trasformazione epocale dei mercati: i clienti, sempre meno soddisfatti dal massificante Taylorismo industriale e dalla conseguente standardizzazione estrema dei prodotti consumati, hanno iniziato a richiedere ai produttori sempre maggiore varietà e personalizzazione. Il fenomeno derivante fu descritto per la prima volta da Chris Anderson nel 2004 come “la coda lunga”. Semplificando, Anderson si accorse che l’analisi di Pareto, da sempre fedele amica del logistico, cominciava a perdere di rilevanza, tanto in quanto i prodotti speciali, particolari, specifici, di nicchia continuavano ad aumentare di rilevanza rispetto a quelli “standard”. Non necessariamente in quanto acquisivano volumi, ma soprattutto tanto in quanto aumentavano sempre più di varietà.

L’avvento del codesign

E naturalmente, operare in un ambito competitivo dominato dal fenomeno della coda lunga vuole dire non solo offrire una gamma prodotti sempre più ampia e diversificata, ma anche doverla continuamente modificare nel tempo, sviluppando processi di innovazione sempre più rapidi, snelli ed efficaci, risultati questi frequentemente ottenuti –tra l’altro- applicando il lean thinking al processo di sviluppo del nuovo prodotto e facendo leva tramite la modularizzazione della gamma produttiva e la conseguente deverticalizzazione sui fornitori di primo livello con processi collaborativi che vennero denominati “codesign”. Il combinato disposto di queste trasformazioni ha portato ad ottenere vantaggi immensi, riducendo i costi di approvvigionamento e produzione, ampliando le gamme dei prodotti posti in vendita, accorciando i tempi di fornitura senza necessariamente aumentare e frequentemente riducendo gli stock… tutto bene quindi?
Non sempre e non necessariamente. Perché le leve sopra delineate, pur avendo contribuito enormemente alla efficienza ed efficacia del processo primario e di molti processi di supporto in quasi tutti i settori industriali, hanno anche aumentato notevolmente il rischio operativo delle catene di fornitura. Vediamo perché.

I problemi per le catene del valore

Il crescente dinamismo, legato, come si diceva, alla globalizzazione, ma anche al fenomeno della coda lunga e dell’accelerazione dei processi innovativi rende sempre più difficile prevedere ed anticipare il futuro. Per reagire con rapidità a perturbazioni impreviste, sarebbe necessaria una catena del valore riconfigurabile con rapidità: tuttavia la dispersione geografica estrema dettata dalla globalizzazione rende l’adattamento più lento. Ed anche l’allungamento delle catene del valore legato alla sopra descritta deverticalizzazione, combinato con la dispersione geografica talvolta dettata dalla globalizzazione non aiutano a reagire in maniera decisa a cambiamenti imprevisti. Infine, anche l’effetto ammortizzante delle scorte viene meno quando esse vengono eliminate o quanto meno minimizzate assecondando il pensiero snello. Per rendere le cose più difficili, molti Paesi, soprattutto nelle aree più sviluppate del mondo, introducono vincoli legislativi cogenti legati all’impatto ambientale dei prodotti e dei processi di trasformazione oppure alla sicurezza ed al benessere dei lavoratori e degli utenti. Se da un lato tali regolamenti sono ovviamente positivi ed auspicabili, essi dal punto di vista operativo non fanno che aggiungere perturbazioni, talvolta poco prevedibili, al sistema.

L’importanza del risk management

Così, alla tradizionale curva di bilanciamento tra efficienza ed efficacia di un processo, tanto comune e familiare a tutti gli ingegneri industriali, dovrà fatalmente essere aggiunta una nuova dimensione: quella del rischio. Ad esempio, quando sceglieremo dove rifornirci di un determinato materiale, dovremo considerare non solo il prezzo praticato, le prestazioni logistiche assicurate e la qualità dell’articolo acquistato, ma saremo tenuti sempre più ad interessarci anche della stabilità economico-finanziaria del fornitore; della sua capacità di conoscere, rispettare ed adeguarsi alla normativa vigente nei diversi Paesi in cui si opera (compliance), della stabilità socio-politica del Pese in cui opera, delle eventuali problematiche ambientali e naturali dei territori in cui realizza la produzione, etc.
Questo è il motivo per cui ogni Supply Chain Manager che si rispetti dovrebbe occuparsi anche di Risk Management, e per cui ogni bravo Risk Manager dovrebbe conoscere bene la catena del valore entro cui opera la propria azienda, ed i rischi che vi si annidano.
E questo è precisamente il motivo che rende rilevante scrivere un articolo sulla gestione del rischio nella supply chain.

@RIPRODUZIONE RISERVATA

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Marco Perona
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